La quaranta

Erano passati solo otto giorni da quel fatidico ed incancellabile giorno dell’operazione alla fistole adagiata maldestramente sul mio coccige. Avevo ancora una grossa benda garzata a protezione della ferita lasciata ancora aperta, con un leggero zaffo all’interno, per permetterne la completa guarigione, che già iniziava dal profondo buco lasciato dalla grande quantità di pus asportato. Ero ancorché indebolito dagli antibiotici a cui fui sottoposto per scongiurare possibili infezioni.

Ma quel venerdì, irrinviabile, arrivò inesorabile a chiedere il conto di quell’attesa a cui già si erano sottoposti i miei compagni di corso.

Dovevo affrontare l’ultima prova fisica prevista dal corso, al termine della prima fase terra.

La quaranta chilometri di marcia operativa, da percorrere su strada, di notte, con l’equipaggiamento militare completo e da terminare in un tempo massimo di otto ore.

Non vedevo l’ora di terminare questa fase, superata fino a quel momento abbastanza bene, ma con la preoccupazione ad affacciarmi alla seconda fase acqua, quella da me, e non solo, ritenuta molto più difficile ed impegnativa. Aggravata dal fatto che custodivo dentro di me il gran segreto di non saper nuotare ed avere poca dimestichezza con l’elemento acqua.

Non c’era tempo però per i ripensamenti, ormai ero in ballo e dovevo e volevo ballare.

Consigli

Tutti i miei camerati del corso si erano messi a disposizione per elargire consigli su come affrontare al meglio il percorso, come curare l’equipaggiamento e sull’alimentazione.

Ma i consigli erano veramente troppi e disparati, molti addirittura contrastanti tra loro. Il risultato finale fu quello di avermi ancor di più creato confusione ed indecisioni.

Decisi così la mia strategia. Iniziai tre giorni prima a non mangiare pasta e pane, preferendo i cibi proteici, quali carne e pesce. A pranzo il venerdì mangiai uno spuntino leggero di verdure.

La sera mi abbuffai di pasta. Avevo praticamente a modo mio realizzato uno scarico dei carboidrati, allo scopo di impoverire il fisico di zuccheri ed immagazzinarli all’ultimo momento, pronti poi, per essere utilizzati durante lo sforzo successivo.

Vi dico subito che il risultato fu deludente e controproducente. Avevo si tanta quantità di carboidrati disponibili di alto indice glicemico, ma non sapevo che per essere trasformati e portati nei muscoli sarei andato incontro ad grossa variazione di insulina, prima in aumento e poi repentinamente in diminuzione. Risultato, il fai da te non va mai bene. Pagai duramente, in termini di performance durante la marcia, questo errore.

L’equipaggiamento

Arrivò il fatidico venerdì sera. Vestii la tuta mimetica intera, con sotto il solo corpetto verde di cotone a mezze maniche. I calzettoni grigi lunghi, di lana grassa, li calzai, come da consigli, sopra ad un paio di calzini corti di cotone bianco. I duri e pesanti anfibi di cuoio, bene ingrassati per ammorbidirli al massimo, completavano la vestizione.

Montai sul cinturone la borraccia di alluminio contenente un litro di acqua, qualcuno mi consigliò di aggiungerci dello zucchero. Ma non lo feci e fu sicuramente una scelta giusta, avrebbe aggravato ancor di più la situazione glicemica, già compromessa.

Lo zainetto tattico di tela conteneva il telo mimetico, un caricatore pieno di proiettili calibro nove, per la M12 in dotazione e l’immancabile “tabacco“.

Il tabacco era un parallelepipedo di piombo, del peso di circa dodici chili. Ci venne consegnato ad inizio corso e doveva seguirci per la maggior parte delle attività fisiche. Era diventato il nostro sgradito compagno di viaggio . L’elmetto e la mitragliatrice M12 completavano l’equipaggiamento con cui si doveva affrontare la prova.

Arrivammo con la fiat campagnola, in cima alla collina di Calice al Cornoviglio, al calar della sera. Mi fecero scendere dall’automezzo militare, con me si fermò il capo inquadratore, Capo Moretti.

Mi diede le ultime indicazioni e la cartina topografica, una pacca sulla spalla e mi disse: “Vai Cicciobello, da questo momento hai otto ore di tempo e quaranta chilometri da percorrere per arrivare al Varignano. Corri, corri e stai attento a non strafare subito”.

Si parte

Mi sistemai bene lo zainetto sulla schiena, tirando bene le cinghie sulle spalle, con l’accortezza di non far rimbalzare il fondo dello zaino troppo in basso sulla schiena e quindi lontano dalla medicazione. Misi a tracolla l’arma in modo che mi si appoggiasse parallela al petto, per appoggiarci le mani e partii con un leggero passo trotterellato, lasciando la piazzetta del paese alle spalle e dirigendomi verso il fondo valle sulla provinciale per Ceparana.

I primi chilometri vennero coperti abbastanza bene, con fluidità, mi sentivo è vero, un pochettino debilitato ancora dagli antibiotici, però sentivo forte dentro di me la motivazione e cominciai a ripetere a me stesso “Volere è potere, volere è potere”.

A metà discesa arrivò la prima piccola crisi, le ginocchia, sotto il peso dell’equipaggiamento ed agevolate dalla discreta pendenza, cominciavano ad intorpidirsi, probabilmente avevo forzato troppo l’andatura, pensando che in discesa si faticasse di meno. Probabilmente si velocizzava l’andatura, ma si pagava in termini di contraccolpi.

Ridussi la corsa e completai la discesa fino ad intersecare la strada sul fondo valle, in direzione dell’abitato di Ceparana.

La strada divenne pianeggiante, sulla destra mi faceva compagnia l’autostrada che talvolta lasciava intravedere il fiume Magra.

La notte arrivò buia e senza luna, avevo scelto di non mettere l’orologio, non volevo riferimenti per non tediarmi con il tempo, volevo solo avere l’istinto dalla mia parte.

Arrivai abbastanza bene ad intravedere le prime case del paese, sapevo di aver percorso una dozzina di chilometri. Cominciai a sentire un lieve bruciore nel fondoschiena, sotto la medicazione, con la mano cercai di capire se si fosse mosso qualcosa. Ero già completamente sudato e cominciavo a sentire inesorabile i primi segni di stanchezza.

Non è una passeggiata

Attraversai il lungo ponte sul fiume, godendo della frescura che ne arrivava dalle sottostanti acque che scorrevano allegre, mi incamminai veloce verso l’abitato di Follo. Trovai dietro la prima curva uno dei nostri istruttori, capo Pascariello. Mi si affiancò esortandomi a non mollare ed a recuperare qualcosa, secondo lui ero leggermente in ritardo. Ci rimasi male, perché credevo di aver avuto una buona andatura ed al momento non sentivo disponibili energie ulteriori per rispondere al ritardo. Mi esortò a correre insieme a lui e continuava a parlarmi, con il suo chiaro accento napoletano e la voce profonda, cupa e forte, completamente in disaccordo al suo fisico piuttosto smilzo e non troppo alto. Alla fine però trovai giovamento e nuove energie mentali da quegli incitamenti, restò con me fino ad imboccare la buia ed umida strada che immetteva nell’impervia Valdurasca.

Pascariello si allontanò da me, lasciandomi nella mano una manciata di uva passa.

I nostri istruttori, per quanto rudi e talvolta spietati nel giudicare, alla fine si dimostravano delle persone dai grandi valori di altruismo e di grande considerazione dell’aspetto umano.

La strada cominciò a salire progressivamente, nel buio quasi più completo. Camminavo praticamente in mezzo ai boschi. L’aria cominciò a rinfrescasi molto e contrastava fortemente con il sudore caldo, tanto da formare piccoli aloni di vapore. Facevo tanta fatica e cominciava a farmi male e bruciare forte la ferita. Vidi nell’oscurità, sul bordo della strada, una piccola roccia, la utilizzai per sedermi un attimo, sapevo che non andava fatto che era peggio fermarsi, ma ero stremato e senza forze. Ne approfittai per aprire la borraccia e bere una grossa sorsata d’acqua per spegnere l’arsura che cominciava a dar fastidio non poco. Ero davvero molto stanco e debilitato, le gambe erano diventate pesantissime e cominciavo ad avvertire un leggero giramento di testa.

Continua…

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