A metà strada

Rinfrancato leggermente dall’arsura, mi guardai in giro per cercare di capire dove mi potessi trovare, ero su di un crinale e nel buio riuscivo a scorgere le luci di un paese sulla mia destra, con l’aiuto della carta topografica capii che si trattava di Bastremoli.

Avevo percorso solo circa venti chilometri, ero a metà strada e con scarse energie rimaste.

Mi feci forza, mi alzai in piedi e mi risistemai bene il carico. Mi sentivo i piedi in fiamme, ma nonostante ciò, la netta sensazione era di avere come del liquido negli scarponi. A fatica ripresi la marcia, abbastanza lentamente, oltretutto ormai da un paio di chilometri la strada era costantemente in salita.

Ero preoccupato, sentivo le gambe legnose ed il respiro era diventato affannoso, mi sforzai di riprendere a trotterellare, incuneato con la testa in avanti per assecondare il dislivello. Continuai a corricchiare almeno una quindicina di minuti, avevo preso un buon ritmo, nonostante l’assenza di forze.

Momenti di tensione

In lontananza, nella notte sempre più nera, vidi due puntini luminosi bassi che puntavano abbastanza velocemente verso di me. Sentii prima chiaramente un guaito poi un abbaiare cattivo. Era un cane, probabilmente randagio, che non si fidava di me. Per la verità nemmeno io di lui. Mi fermai di scatto per non impaurirlo oltremodo.

La bestiola arrivò ad un paio di metri, ansimando e digrignando i denti con la testa bassa, Aveva la coda bassa e le orecchie tirate indietro. Altro che bestiola, sembrava un lupo della steppa, ed era davvero molto impaurito ed aveva un atteggiamento davvero cattivo. Si fermò minaccioso e mi guardava senza mai smettere di ghignare, ad ogni mio piccolo movimento cercava di avvicinarsi pericolosamente. Se lo scansavo a destra lui si spostava a destra, se lo facevo a sinistra lui mi copiava, se indietreggiavo mi assecondava. Stavo perdendo tempo, avevo perso il buon passo trovato con non poche difficoltà e nonostante la paura, avevo perso anche la pazienza. Non potevo stare tutta la notte a sfidarlo in quella posizione statica.

Portai la mano al cinturone ed afferrai il pugnale nella mano destra e lo puntai verso di lui, nel frattempo mi ricordai che avevo un pacchettino di biscotti nella tasca della mimetica, la presi con la mano sinistra, glielo mostrai, lo vidi cambiare leggermente espressione, sembrava interessato, alzai la mano e disegnando un ampio arco nell’aria, lanciai il più lontano possibile oltre il ciglio stradale.

In fuga

Il cane scattò in avanti e si fiondò giù nel dirupo. Mi misi a correre più forte che potevo verso la mia destinazione, con il pugnale in mano e senza mai girarmi dietro. Non sentivo dolori, non sentivo nessuna sensazione di stanchezza, le gambe giravano una meraviglia. Sicuramente quei due chilometri furono quelli più veloci in assoluto.

Stavo quasi per arrivare in cima alla Foce, il punto più alto del percorso. Alzando gli occhi potevo contare gli ultimi tornanti a che si mettevano paralleli disegnando ampie curve a gomito. La pendenza si fece interessante e soprattutto si faceva molto notare e sentire, la corsa era diventata un’arrancare lentissimo ed impacciato. Sul secondo tornante vidi una figura venirmi incontro, era il direttore del 31° Corso Scorpioni, il Signor G.

“Dai mondo ladro” esordì, “Non mollare, cosa rallenti, devi aumentare, dai dai, questo l’ultimo sforzo, dopo tutto discesa, devi volare fino al Varignano, se vuoi continuare il corso”. Mi si affiancò e cominciò a correre all’indietro, facendomi segno di seguirlo. Raccolsi quelle poche forze che riuscii a reclutare e cercai di seguirlo aumentando il passo.

Mi accompagnò, senza far mancare i suoi incitamenti, fino al termine dell’irta salita. Poi salì sulla campagnola Fiat che nel frattempo era arrivata a prenderlo.

Vista panoramica

Arrivai in un punto altissimo, dove potevo vedere tutta La Spezia stesa in basso nella valle, ad incontrare il mare. L’arsenale e le superbe Navi della Marina Militare, si stagliavano sulle buie acque dell’Arsenale militare.

Ebbi la bella sensazione di essere quasi arrivato. Tirai un gran sospiro di sollievo e mi fiondai giù di corsa, ad ampie falcate, sugli stretti e corti tornanti ripidi, che mi avrebbero portato nel capoluogo  spezzino. Con quella andatura saltellante, lo zaino rimbalzava, troppo sulla schiena, assestandosi ad ogni falcata e facendomi sentire tutti i suoi venti chili contenuti. Cominciai di nuovo ad avere la sensazione di umido sul retro delle gambe, sentivo chiaramente qualcosa di liquido che scorreva, ma non volevo pensarci, volevo approfittare appieno di quell’agevolazione che mi offriva la strada.

Arrivai in poco tempo a fondo valle, in città svoltai in direzione Viale Fieschi.

Rallentai l’andatura, ero stremato e stanco, ansimavo forte e mi facevano male tantissimo anche i piedi negli scarponi infuocati. Ero sicuro che si fossero rotte delle vesciche formate sui talloni e sulla pianta dei piedi. Da dietro ai grossi platani che si intercalavano nell’ampio viale che divideva l’Arsenale dall’ospedale militare, sbucarono uno ad uno delle persone in abito civile e con il Basco Verde in testa. Erano gli Incursori già brevettati ed operativi. Mi incitarono, qualcuno mi offrì da bere, un altro mi diede una barretta di cioccolato, uno di loro, con il chiaro accento napoletano, che i commilitoni chiamavano ” Lione”, si mise a correre dietro di me sollevandomi lo zaino. Mi sembrò di volare per un attimo.

Mi lasciarono davanti allo stadio Montagna.

Arrivai sulla strada napoleonica che mi avrebbe condotto diritto al Varignano.

Avevo il mare costantemente sulla mia sinistra e potevo sentire il profumo dello iodio nelle narici dilatate ed affamate di aria.

Sono arrivato

Sono arrivato, sono arrivato, mi ripetevo da solo. Ma quelle curve non finivano mai. Ormai non riuscivo più a correre, il mio moto era diventato uno sciabicante camminare a zigzag. I piedi mi slittavano negli scarponi e le tracolle dello zaino non avevano più pelle libera buona dove appoggiare sulle spalle.

Pensavo di morire ad ogni curva. Ma come, non doveva essere l’ultima? Mi ripetevo ogni volta. Non mi ricordavo tutte quelle curve prima del Varignano.

Quando tutto sembrava perduto, mi si parò davanti a me Punta Pezzino, dritto di fronte, sembrava un miraggio, il Varignano. La mia meta.

Subito dopo la curva spuntò un altro istruttore, Capo Trotta.

Mi accompagnò praticamente fino al cancello d’ingresso, non disdegnando di urlare, anche lui, “corri corri”. Ma ormai non sentivo più nessuno, ero distrutto!

Arrancai sull’ultima rampa del Varignano, in assoluto  quella più faticosa di tutte, mi fecero entrare in una stanza semi buia. Un medico mi aiutò a togliere lo zaino e mi fece sedere. Mi misurò la pressione e la temperatura. Mi misero sul tavolo davanti una pistola beretta e mi dissero che al loro via avrei dovuto smontarla, mischiare i pezzi e rimontarla. Spensero la luce. Le mani cercarono nel buio di riconoscere i vari pezzi e riuscii a finire il compito assegnato. Dopodiché accesero la luce e mi diedero un foglio con alcuni problemini di logica da risolvere in un tempo stabilito. Erano problemi del tipo: “Dal bordo di una nave in porto pende una biscaggina che arriva a un metro e venti centimetri dal pelo dell’acqua. Sapendo che si alzerà una marea di dodici centimetri l’ora, dopo quattro ore quanto sarà la distanza della biscaggina dall’acqua?”

Ce l’avevo fatta

Finiti i test mi dissero che finalmente potevo andare a dormire e che la prova era stata superata in sei ore e quaranta minuti. Non potevo crederci. Ce l’avevo fatta, nonostante tutte le condizioni sfavorevoli.

Andai lentamente verso il camerone, i miei commilitoni dormivano tutti. Non ebbi la forza né di lavarmi né di togliermi gli scarponi. Mi misi supino sul letto ed abbracciai immediatamente Morfeo.

Mi svegliai il pomeriggio seguente. Mi tolsi gli scarponi e la mimetica. Avevo le gambe praticamente insanguinate, dovuto al sanguinare della ferita alla base della schiena. Avevo lividi sulle spalle ma quello che fu peggio, togliere i calzettoni di lana grezza. Erano diventati un blocco di gomma rigida. Impregnati di sangue pesto e dei residui delle molteplici vesciche ai piedi. Qualcuno mi aiutò a togliere, anzi a strappare, i calzini di cotone, ormai appiccicati ai piedi. Riuscii a fatica ad arrivare sotto la doccia. Aprii il rubinetto e ricevetti subito il sollievo dell’acqua scrosciante benefattrice. La stessa acqua che da li a poco avrei dovuto affrontare per continuare il Corso Incursori. L’ultima prova era superata, la fase acqua era arrivata. Volere potere!

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