Ines ed Erminia

Terremoto del Friuli 1976 – Buia

Le ho viste la prima volta il giorno dopo il nostro arrivo nella zona di Buia, quando ancora il campo e l’ospedale  non erano  completati  e l’infermeria aveva organizzato all’aperto un ciclo di vaccinazioni.

Ines, la mamma, una vecchina minuta, con un vestitino leggero a fiori; dal fazzoletto legato sotto il mento spuntava un  ciuffo di capelli candidi, tra le mani una borsa di quelle a quadri di pelle che si usavano per la spesa, stretta al petto.

Erminia, la figlia, due passi dietro, non più una ragazza, alta, formosa, attirava come una calamita gli sguardi di cento paia di occhi degli Operatori impegnati nel montaggio del campo: ho subito pensato

– ecco come sono le “mule”!-

Stavano lì, ferme, silenziose, senza chiedere nulla, ma negli occhi di Ines una domanda

– cosa facciamo?-

Mi sono avvicinato, le ho salutate e le ho accompagnate al tavolo dove una dottoressa, aiutata dai nostri infermieri  eseguiva le vaccinazioni; La Ines ha offerto il braccio tenendosi la manica del vestito alzata ed ha guardato puntigliosamente, quasi come una sfida, l’ago che la bucava, mentre Erminia quando è toccato a lei  ha voltato la testa ed ha sorriso a denti stretti all’infermiere a fianco.

Nei  giorni seguenti  eravamo in piena attività nei dintorni di Buia per montare le tende del Ministero degli Interni come ricovero temporaneo nelle vicinanze delle case isolate e lesionate.

Noi  Incursori eravamo molto popolari in quanto eravamo sempre disponibili a tentare di entrare negli edifici pericolanti per recuperare qualche oggetto o bene necessari, anche dal punto di vista affettivo, a superare quel momento difficile;  tutto questo contravvenendo, con un pizzico di incoscienza, alle disposizioni dei Vigili del Fuoco.

Proprio nel cortile di una piccola casa con il portico crollato e la facciata rigata da profonde crepe come rughe su di un viso  abbiamo ritrovato Erminia  e la sua mamma Ines, sempre con la sua sporta a portata di mano, che tentavano di spostare le macerie del portico crollato: volevano  raggiungere la cantina; è stata dura convincerle a desistere, abbiamo dovuto organizzare un passamano di pietre e mattoni fino a raggiungere l’ingresso della cantinetta ed a trarre in salvo ciò che restava del tesoro nascosto: solo due piccole bottiglie di Picolit.

Abbiamo montato una tenda e spiegato alle due donne che in caso di nuove scosse dovevano abbandonare la casa, non ancora dichiarata inagibile, e ricoverarsi nella tenda; prima di lasciarle hanno voluto aprire una delle due bottiglie ed abbiamo brindato con una goccia a testa di quel nettare mieloso, per ricambiare abbiamo lasciato una cassa di Giacobazzi: dodici bottiglie di Lambrusco per rimediare alla cantina distrutta in cambio, a nostro favore,  di una goccia di Picolit.

Nel tardo pomeriggio, preannunciate da una serie di latrati ed ululati dei cani tutto attorno, sono arrivate con un sordo  brontolio due forti scosse di assestamento ed a seguire una pioggia insistente che ci ha accompagnato fino all’ora di cena nella tenda mensa.

A tavola mi sono ritrovato immerso in pensieri con la forchetta alzata e di fronte  il Dolce, Capo Dolcemaschio un maresciallo in squadra con me, che mi dice

– che hai, Milanese? – ed io – chissà l’Erminia e la Ines, chissà… –

il Dolce scuote la testa e la china sul piatto poi, come colpito da un’illuminazione, dice

– dopo cena prendiamo la 712 ed andiamo a vedere -.

Siamo arrivati nel cortile che continuava a piovere, buio pesto, la casa con le finestre aperte che sembravano occhiaie vuote, i fari della campagnola hanno illuminato la tenda e tra i teli dell’ingresso mamma Ines sdraiata a terra faccia in giù con la testa quasi nella verandina; il Dolce mi benedice con due dita e mi fa

– questa è andataaa –

con la sua cantilena siciliana che non aveva  mai perso nonostante  una vita passata a La Spezia.

Sono sceso e sono rimasto immobile sotto la pioggia, non ero pronto ad accettare un’altra morte dopo le giornate passate a scavare a Gemona; ho cominciato a chiamare

– Erminia, Erminia – ed ancora più forte – Erminia, Erminia –

ad un tratto quel capino bianco si è sollevato ed ho sentito una vocina dire

– Erminia, ti chiamano! –

Le due donne si erano giudiziosamente rifugiate nella tenda dopo le scosse di terremoto, ma mamma Ines non voleva perdere di vista la sua casa, si era sdraiata nell’ingresso della tenda e lì si era addormentata.

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1 commento
  1. Paolo Zanzero
    Paolo Zanzero dice:

    “”Mule”” vengono chiamate le ragazze Giuliane nel loro dialetto (Triestino) e non le ragazze friulane. Comunque bella testimonianza, grazie. Paolo Zanzero – Basiliano (UD)

    Rispondi

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