In seguito toccò ai paracadutisti ed alla Finanza. Le visite di personaggi nazionali e stranieri non si contarono: alcuni venivano portati al Muzzerone ed altri a Punta Castagna; difficilmente dopo la prima volta accettavano un’altra dimostrazione e, comunque, difficilmente ci capivano qualcosa.
Quando il VIP veniva introdotto nella stanza dell’irruzione (noi l’avevamo sempre chiamata entrata, in italiano, ma quando cominciarono ad imparare gli altri, arrivarono le finezze tecniche ma soltanto nelle nomenclature), gli veniva spiegato che sarebbero entrati degli operatori sfondando la porta, che avrebbero sparato sui bersagli e che si sarebbero fiondati nei vari locali bonificandoli.
Io gli raccontavo come avremmo seguito l’azione di persona e tramite la macchina meravigliosa, dalla quale avremmo saputo in decimi di secondo il primo colpo messo a segno su ogni bersaglio in ognuna delle stanze, la salute o la morte del bersaglio o dei bersagli amici, il tempo complessivo dell’azione, che, ovviamente, doveva essere terribilmente breve per non dare il tempo ai terroristi di intervenire sugli ostaggi.
Finita questa fase di preamboli, avevo preso l’abitudine di osservare l’atteggiamento degli osservatori: succedevano delle cose da pazzi quando la porta saltava con l’esplosivo o veniva sfondata a fucilate di pallettoni, e le raffiche si sprecavano e ti schizzavano sui piedi mostri neri mascherati con diavolo addosso.
La centralina tirava le somme con la velocità della luce coi suoi codici ed i suoi decimi di secondo e centesimi di risultato: io spiegavo i fatti in pratica con la padronanza che mi potevo permettere e, solitamente, mi potevo premettere di tutto, tanto era lo sbalordimento di quegli esseri.
L’unico che mi sorprese per la vigile attenzione fu il ministro Lagorio che, a parte i sobbalzi all’entrata con dovizia di esplosioni e raffiche, mi sembrò che restasse presente allo svolgimento dell’azione e, soprattutto, anche dopo, quando spiegai che erano morti tutti quelli che dovevano morire ed eran salvi, oltre a noi, gli ostaggi: gli dissi quanti colpi erano stati sparati, con quale successione nelle varie stanze e che tutto s’era svolto in secondi quattro e decimi due.
Mi chiese spiegazioni sui tempi e gli spiegai che il tempo di quattro e due era compreso fra lo scoppio della porta e l’ultimo colpo messo a segno nella stanza più lontana. Si, ma lui… aveva sentito una raffica certamente più tardi; l’avevo sentita anch’io e mi piaceva poco ma… la spiegazione l’avremmo trovata nel resoconto degli operatori in ripiegamento.
Intanto, quelli arrivavano trafelati coll’entusiasmo e col cuore di sempre e si schieravano nel stanza dell’entrata, della condanna della centralina, del ministro, dell’ammiraglio, del comandante e mia.
Mi rivolsi all’operatore della stanza sette, la più lontana, gli dissi il suo tempo meraviglioso d’intervento e gli domandai che intoppo c’era stato: lui era giovanissimo e si chiamava Gesuino; disse candidamente che aveva tirato bene e subito dalla finestra, ma che poi, ripiegando, gli era sembrato che si muovesse ancora e ci aveva scaricato il caricatore! Il ministro gli diede la mano, io gli tirai una manata sulla spalla e una manatina la tirai anche al ministro che si complimentava. Il comandante Bercini stava sulle spine (e ne aveva motivo) ma era contento (e ne aveva motivo); l’ammiraglio era stralunato e non so se era contento.
Conseguenze
Dosik, che era il più appassionato dei fotografi conosciuti, riprese dall’infermeria il Capo del Gabinetto del Ministero dell’Interno, al suo arrivo in banchina: portò nella stanza doppia di Punta Castagna una bella fotografia della faccia del Funzionario, che fu appiccicata alla testa del manichino da salvare.
All’arrivo dei VIP, spiegazione ed arrampicamento nella vetrina coi vetri antiproiettile: non si mancò di far notare la faccia del manichino più importante!
Si spalanca la porta, irrompono a schegge otto così neri nell’appartamento semi-buio: lanci di flash bang, schizzi di fuoco, raffiche controllate, colpi di fucile, ansiti nelle maschere, gracchiare di radio, fumo e odore di polvere salgono dalle stanze senza tetto con le pareti divisorie scosse dagli scoppi e dagli spintoni. Ripiegamento galoppante coi manichini trascinati a fagotto.
Fuori dell’uscio, la centralina registra i decimi dell’interruzione delle barriere a raggi infrarossi in ogni stanza, l’abbattimento di ogni bersaglio nemico e dell’unico bersaglio amico in tempi furiosi: trasalimento e speranza in un guasto. A soffocare la speranza, l’auricolare ansante spara “Situazione: sei lupi morti, una pecora morta”.
Fottuti!
Sbucano dalla vetrina facce terree; vagano fra le paratie ora illuminate a giorno, annaspano nel fumo nel ronzio dei estrattori ed escono all’aria aperta: una spia rossa lampeggia nel display; appoggiato al muro, un bambolotto con brandelli di foto per faccia, perde segatura dal capo sfondato.
Il VIP trova una parvenza di sorriso dinanzi agl’individui allineati immobili:
– Se mi sequestrano non venite a liberarmi!
A cose fatte, concitata resa dei conti e calma dichiarazione del nostro:
– Ehi! Io non conosco nessuno. Come entro sparo subito a tutti.
Lo ritrovammo al Terminillo.
Qualche figuraccia
Una toccò al Prugna al quale avevo lasciato le consegne con il poligono pronto per tutte le prove e le raccomandazioni del caso: quando mise in moto, si dimenticò un passaggio e non si mosse di un passo; quando incominciarono a chiedergli “all’ora s’incomincia”, scappò per il bosco e, mi raccontarono, saltava sulle rocce come uno stambecco.
A me toccò una notte che erano venuti in sessanta da Livorno, in più c’eravamo parecchi di noi e qualche osservatore. Approntato che avemmo tutto con la collaborazione entusiastica degli ospiti, eseguito il test, fatta la spiegazione, arrivato il momento della partenza del primo operatore per la prima serie, si bloccò tutto e non ci fu verso di ripartire; non avevo una centralina di riserva e quella bloccata non fui buono di convincerla, malgrado ogni tentativo.
Non potemmo far altro che smobilitare. Non successe più, né a me né agli altri: procurammo di avere sempre la riserva di tutto, anche la riserva della riserva.
Per fortuna, nessun incidente grave
Sappiamo che l’attenzione non sempre basta, un po’ di fortuna ci vuole sempre, meglio se è tanta.
Nel labirinto delle stanze, su un percorso articolato per un solo operatore alla volta, mentre nella penombre eseguivo da solo un controllo, vidi i bersagli muoversi, sentii sparare nella prima stanza e poi correre e sparare di nuovo; mi buttai a terra contro una parete, arrivò Gennaro mi vide e non mi sparò, che Dio lo benedica sempre! Era successo che Giuà, in seguito detto ‘o lione, per un malinteso aveva dato il via.
Nel giorno che prese il nome della “ferocia”, un indiavolato sparò a bruciapelo su una macchina inerte di riserva che avevamo accantonato dietro la stessa parete mia.
Parecchi anni dopo, nelle stesse stanze già rivestite più volte, un giovane di complemento di un’Arma che non dico si smarrì nel vero senso della parola e si mise a piangere: riuscii a prenderlo alle spalle, a farlo sparare su qualche sagoma e a promettergli di non dire la verità al suo capo, se no se lo mangiava e faceva bene. Promesso.
In un esercizio per due operatori esperti che avanzavano a sbalzi nel corridoio grande dei centro metri, sbagliai l’impostazione della sequenza, successe una situazione grave di pericolo: i due operatori erano davvero esperti, uno bravissimo, uno fortunato, a Massimiliano ed a me si gelò il sangue. Stop, riponemmo i ferri, ci facemmo un caffè collettivo.
Cosa costò e cosa mi dette
Mi costò moltissimo lavoro: molte preoccupazioni. Poi, per fare sparare gli altri, gradatamente dovetti smettere di sparare e fu la rinuncia che mi pesò di più; ero un discreto tiratore ed avevo partecipato per anni alle gare di tiro: coll’avvento del SAT, finita la fase iniziale dei collaudi, mi ritrovai a fare qualche serie di prova durante la messa in opera e, sempre, i tiri fuori sagoma per la tarature dei sensori del colpo…
Qui ci va una spiegazione: gli accelerometri sono i sensori che, tramite le vibrazioni, rilevano i colpi che trapassano le sagome; per evitare che la sagoma si “suicidi”, per la semplice sollecitazione acustica dello sparo o per il sibilo della palla, ad ogni sensore va regolata la sensibilità ed il sistema più sicuro è quello di sparare su ogni sagoma da vicino sbagliandola di pochissimo.
Una volta a Fossola, mi accorsi che Danilo e Pascariello mi osservavano esterrefatti, mentre sparavo da due metri su una sagoma nuova e su dieci colpi ne avevo messo a segno due e male. Avevo preso l’abitudine di non dare spiegazioni se no ci voleva troppo tempo e invece c’era sempre fretta.
Mi dette molte soddisfazioni
Suvvia… un po’ di tecnica.
Voglio anche trascrivere l’osservazione che misi in chiusura del resoconto che preparai nel 1988, allo scadere dei primi dieci anni dall’introduzione del SAT, si vedrà che neanche in quell’occasione si trattò solamente di metodi, di avarie, di statistiche, di manutenzioni.
A margine della dettagliata statistica sulla preparazione dei nostri operatori, ci pare di dover rilevare come l’assenza della figura di un “giudice-istruttore” ponga il tiratore dinanzi ai risultati immediatamente interpretabili forniti dalla macchina, consentendo una positiva forma di autoaddestreamento.
Non si può tacere una particolare curiosa tendenza (alla quale è stato anche dato un nome), riscontrata nelle nostre squadre: alcuni operatori fra i più spavaldi mostrano una certa avversione per il Sistema: si ritiene a causa bell’inflessibile giudizio della macchina, che annulla la fama di spregiudicato tiratore acquisita con mediti molto più “empirici”.
Il nuovo strumento fu anche scuola di Reparti antiterrorismo delle altre Forze Armate e della Polizia, rivelando subito interessanti caratteristiche: si constatavano infatti vistosi miglioramenti fin dalle prime sedute dei gruppi che via via venivano inviati presso di noi; accadeva inoltre che gli operatori più dotati raggiungevano livelli eccellenti con un numero di colpi sparati irrisorio ed in tempi brevissimi rispetto a quelli usuali; si dovrà accennare allo strano provvedimento adottato da un Reparto della Polizia: la sospensione dell’addestramento col SAT perché il personale non acquisisse “un’esagerata perizia”.
Il poligono elettronico e il tiro sportivo
Trovarono il verso, complice certe favorevoli circostanze e la passione di due bravi vigili urbani della Spezia, di trascinarci, col nostro esclusivo Sistema, in una manifestazione sportiva che fu un grande successo per diversi anni.
Il poligono che non era nato per certi scopi, si dimostrò abbastanza flessibile ma non mancarono gli inconvenienti: riconosceremo a Giorgio, prezioso collaboratore, il merito di trovare qui sempre intelligenti soluzioni correttive.
A quello che poi prese il nome di “effetto Polini”, non trovammo soluzione se non reinventando un poligono su misura: tale ingegno sortì dalla collaborazione di tre amici me compreso ed era semplicemente mostruoso; al punto che ora giace nella cantina di uno di noi tre. Troppo bello.
L’effetto di cui trattasi si verificava quando un tiratore prontissimo colpiva la sagoma nell’attimo preciso in cui la stessa si stava attivando: la concomitanza dell’ordine di attivazione, del rilievo del colpo a segno e della trasmissione del dato, mettevano in sofferenza la centralina che, il più delle volte, non registrava il bersaglio come colpito.
Ora, sarà chiaro a tutti che nel tiro in guerra non può accadere che uno tiri a qualcuno prima che questo si manifesti; nel tiro sportivo, due persone (o due mostri) ci sono riusciti: precisamente, una volta un colonnello dell’Aeronautica e, cinque volte consecutive, il nostro Polini, appunto.
Mi dispiacque per il colonnello che, professionista del tiro e di mirabile correttezza, accettò il verdetto di “bersaglio mancato”, in una gara che certamente avrebbe vinto. Per il nostro, fu più difficile.
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